Il 2 aprile è stata la giornata di consapevolezza dell’autismo e il 5 aprile è uscito nelle sale “Quanto basta” con Vinicio Marchioni e Luigi Fedele. Ne è passato di tempo da “Rain man”, oggi tra cinema e tv il racconto dell’autismo passa per la commedia. Ed è un bene, parola della dottoressa Maria Spinelli, specialista in disturbi dello spettro autistico.

Dal film di Barry Levinson con Tom Cruise e Dustin Hoffman sono passati 30 anni, l’autismo ne ha fatta di strada nella ricerca e nella diagnosi precoce e anche i media raccontando la sindrome dello spettro. In occasione della giornata di consapevolezza dell’autismo, che è il 2 aprile e quest’anno cade infelicemente il giorno di Pasquetta, facciamo il punto di come è cambiato il racconto della sindrome di Asperger al cinema e in tv. Soltanto negli ultimi mesi due commedie e una serie hanno scelto per protagonisti tre ragazzi “aspi” come si definisce scherzosamente uno di loro “tre ragazzi che, se protetti a dovere nella loro ipersensibilità, possono aver un ruolo e uno spazio nella società – spiega la dottoressa Maria Spinelli, ricercatrice in Psicologia dello sviluppo dell’Università G. D’Annunzio di Chieti – purché la diagnosi arrivi presto. Mi ha colpito molto la battuta del protagonista di “Quanto basta” che ad un certo punto dice: “Mia mamma è morta prima che io avessi la diagnosi e mio padre pensava che io fossi scemo”. Quello che è importante, e che mi sembra sia chiaro in tutte e tre questi casi è che il racconto che ogni film o anche la serie fa è uno dei possibili ed è un racconto stereotipato, volutamente stereotipato e questo non riguarda solo i ragazzi Asperger ma anche tutti quelli che girano loro intorno”.

“Quanto basta” è la storia dell’incontro tra Arturo, uno chef talentuoso, finito in carcere per rissa (Marchioni) e Guido, un ragazzo con la sindrome di Asperger e una grande passione per la cucina (il bravissimo Luigi Fedele già visto in Piuma). Si incontrano quando Arturo deve scontare la pena ai servizi sociali tenendo un corso di cucina in un centro per ragazzi autistici dove lavora Anna (Valeria Solarino). Al motto di “il mondo ha tanto più bisogno di un perfetto spaghetto al pomodoro che un branzino al cioccolato”, Arturo lentamente impara a comunicare con Guido e diventa per lui un punto di riferimento. Riuscendo a mettere da parte la sua rabbia e i suoi problemi personali Arturo accetta di scortarlo alla gara di cucina cui il ragazzo tiene moltissimo. “Per Guido partecipare a quel concorso è fondamentale – spiega la dott.sa Spinelli – perché per lui è l’occasione di dimostrare che è “qualcosa di più” del suo disturbo. Anzi il suo palato assoluto, che gli permette di distinguere con abilità sorprendente tutti gli ingredienti di un piatto, è qualcosa che forse avrebbe potuto avere anche se non fosse stato Asperger, ma forse anche no. Perché la sua ipersensibilità agli stimoli, che gli creano tanti problemi nella vita sociale, in questo caso possono giocare a suo favore. Un bambino che fa fatica a mangiare perché per lui i gusti sono tutti troppo forti può diventare uno chef dotatissimo”.

È in sala già da qualche settimana invece il debutto alla regia della coppia comica Nunzio – De Biase. Vengo anch’io è il racconto dell’incontro di tre persone diversissime: un aspirante suicida, un’ex carcerata e Aldo, un ragazzo con la sindrome di Asperger. Bastonati dalla vita, e stanchi di mettersi in gioco perché oramai assuefatti alla sconfitta, per uno strano scherzo del destino saranno costretti a intraprendere un viaggio insieme che li porterà a confrontarsi con il proprio passato, a lottare con i propri demoni e a uscire dalle proprie solitudini. “Qui il ragazzo con l’Asperger è meno protagonista, ma è un fatto positivo perché mette in luce l'”atipicità” degli altri due, anzi Aldo è colui che tiene le fila di quello che accade. È interessante capire come il suo personaggio finisce per essere una risorsa per gli altri due, un punto fermo in tutto il viaggio. Il messaggio di questo film è chiarissimo: siamo tutti un po’ atipici”.

Da mesi è invece disponibile su Netflix la serie Atypical prodotta e interpretata da Jennifer Jason Leigh. È la storia del diciottenne Sam (interpretato da Keir Gilchrist), un ragazzo con un disturbo dello spettro autistico in cerca di amore e indipendenza. Mentre Sam vive questo viaggio alla scoperta di sé, divertente ma doloroso, i suoi familiari devono affrontare a loro volta importanti cambiamenti. “La serie gioca bene – dice la dottoressa Spinelli – perché porta tutto al limite anche del ridicolo talvolta ma non lo fa soltanto con Sam, lo fa con ogni componente della sua famiglia, con una finalità che non è assolutamente né quella di sminuire il problema né di prendere in giro il personaggio”.

In definitiva se bisogna tirare le fila di questo discorso attraverso l’umorismo la dottoressa Spinelli non ha dubbi e promuove tutti e tre i titoli. “Io considero molto educativo il fatto prima di tutto che si parli del disturbo dello spettro autistico e delle conseguenze nella vita quotidiana non solo per i ragazzi ma per tutte le persone che vivono con loro e poi che se ne parli in modo “normalizzato” senza svalutare le difficoltà che questo comporta. L’aspetto molto positivo di queste tre commedie è che rende Sam, Guido e Aldo non qualcuno di lontano, che non potremmo mai incontrare, personaggi che fanno parte di quel “atipico” cui noi “tipici” non apparteniamo. Tutt’altro, attraverso le loro storie il pubblico può arrivare ad identificarsi; tutti e tre hanno gli stessi desideri e bisogni degli adolescenti maschi della loro età: essere amati e riconosciuti attraverso le loro competenze”. E poi sdogana l’idea che di questi temi non solo si può, ma si deve ridere: “Sì perché c’è una grande differenza tra comicità e mancanza di rispetto – dice Spinelli – qualche volta possono coincidere, ma la tensione da tenere è questa: ridere delle particolarità di ciascuno individuo con attenzione. Rispetto al documentario di cui abbiamo parlato lo scorso anno, “Animated Life” candidato agli Oscar, che può aver visto un numero di spettatori molto limitato, magari già preparati sull’argomento, le commedie o una serie tv arrivano ad un pubblico decisamente più ampio e questo è un modo per fare cultura”.

Chiara Ugolini, Repubblica.it